Io non sono interessato al risultato fotografico in assoluto, in astratto, io sono interessato a fare dei bei film.
A Ottobre 2022 ho avuto modo di passare una giornata sul set de La Storia, una serie RAI tratta dal libro omonimo di Elsa Morante, diretta da Francesca Archibugi e fotografata da Luca Bigazzi. Nell’occasione ho fatto la conoscenza di Luca, che mi ha parlato con grande generosità e passione del proprio lavoro. Al termine di quell’incontro ci siamo dati appuntamento per un’intervista, il cui risultato è in questa pagina.
INTERVISTA A LUCA BIGAZZI DEL 12 DICEMBRE 2022
La prima cosa ad avermi sorpreso del tuo modo di lavorare è il fatto che non utilizzi né l’esposimetro né il termocolorimetro, né alcun tipo di assistenza visiva per valutare le immagini; quindi niente waveform, false color o vettroscopio.
Esposimetro e termocolorimetro erano strumenti che avevano senso ai tempi della pellicola, che rispetto al sensore digitale era un supporto molto pericoloso, nel senso che se la sovraesponevi o la sottoesponevi poi avevi possibilità di correzione molto limitate; e lo stesso valeva per i colori, dato che in fase di stampa potevi giusto scaldare o raffreddare complessivamente l’immagine, non avevi modo d’intervenire in maniera specifica su porzioni di fotogramma. Oggi con la color correction si può fare un po’ di tutto, il girato è molto meno vincolante, quindi non è più indispensabile essere così precisi in fase di ripresa. Questa permissività del digitale, unita al fatto che dopo oltre quarant’anni ho iniziato un po’ a capire come funziona la luce e a potermi fidare di ciò che vedo, mi ha portato a non utilizzare più l’esposimetro né il termocolorimetro e a non sentire la necessità di assistenze visive per valutare un’immagine o una luce.
Quindi il passaggio dalla pellicola al digitale, per quanto ti riguarda, ha portato solo vantaggi.
Non mi manca affatto la pellicola, anzi, io mi sento finalmente liberato da catene insopportabili. Dover sempre mettere delle luci perché la pellicola era poco sensibile, per esempio, era una cosa che andava contro non solo la velocità ma anche la fattibilità di certe riprese. Che l’immagine digitale sia meno pericolosa e richieda meno accorgimenti lo dico con grande felicità. Metà del mio lavoro oggi lo faccio in fase di color grading e da questo non mi sento affatto sminuito. Poter creare un’ombra in post produzione e non dover introdurre bandiere enormi sul set mi da modo di essere molto più veloce, di realizzare inquadrature e movimenti macchina con una libertà di gran lunga superiore a quella che avevo lavorando in pellicola.
Nonostante buona parte del tuo lavoro oggi avvenga in fase di color grading, sul set non ti avvali di un DIT.
No. Sul set non ho tempo di stare sotto un tendone a discutere con un tizio se lì è troppo chiaro o là è troppo scuro. Stabilisco in anticipo col mio colorist il tipo di LUT, il tipo di contrasto e di colori che dovrà avere il lavoro che stiamo facendo e poi giro senza neppure quella LUT in camera; perché preferisco lavorare col contrasto e col colore originali, senza distrazioni, sapendo che in fase di color grading saranno applicate quelle variazioni prestabilite. L’effetto della LUT lo vedo uno o due giorni dopo le riprese, nelle still tratte dai giornalieri lavorati dal colorist. Non voglio vederlo in camera. Così come non m’interessa visualizzare sul set il risultato dell’HDR. Se noto davanti a una finestra una tenda bruciata e so che grazie all’HDR posso recuperarla, questo mi basta; non m’interessa avere il risultato finale a monitor, mentre sto girando, per tranquillizzarmi. Non sono questi i problemi del set, sono ben altri.
Quali sono allora i principali problemi del set per quanto concerne il tuo lavoro?
Il problema fondamentale è essere più veloci possibile. Prima di tutto per non rallentare il lavoro della regia e degli attori e poi per sfruttare al massimo la luce naturale del sole, che sarà sempre più bella di qualsiasi luce potrò mai creare io con le mie lucette artificiose. Se il sole entra dalle finestre in maniera meravigliosa e io sono in grado di girare la scena in un’ora invece di cinque, non solo posso approfittare di quella luce, ma permetto agli attori e al regista di fare più inquadrature e alla scena di venire meglio. Io non sono interessato al risultato fotografico in assoluto, in astratto, io sono interessato a fare dei bei film. E i film sono belli se lascio spazio al regista e agli attori e permetto loro di realizzare tutte le inquadrature che servono.
Questo è il motivo per il quale, quando possibile, chiedo di girare con tre macchine; per girare in grande velocità e sfruttare la luce naturale. Dopo mezz’ora dall’inizio lavorazione io devo essere pronto a girare, sennò mi sento in colpa. Se ho bisogno di più tempo, cosa molto rara, devo avvantaggiarmi il giorno prima o con un prelight.
Bisogna fare delle cose semplici. Basta con questa mitologia del direttore della fotografia che arriva e stravolge la realtà degli ambienti. È una roba non più necessaria, che appartiene al passato. Io cerco di essere invisibile e veloce. E questo ti apre al cambiamento. Se tu hai messo diciotto proiettori per un’inquadratura e il regista cambia idea e ne vuole un’altra, tu hai diciotto proiettori da spostare. È un problema. Se tu non hai messo quasi niente, non è un problema, sposti le camere e sei pronto a riprendere.
Quindi per te girare con tre camere è preferibile a prescindere che si tratti di una serie o di un film.
Se non ci sono esigenze artistiche particolari, come lunghi piano sequenza, per me girare con tre camere è sempre ottimo. Anzi, budget permettendo io girerei con cinque.
Lavorando con più camere come gestisci l’illuminazione?
Ovviamente lavorare con tre macchine significa che il campo inquadrato copre almeno 180° e che quindi non posso piazzare tante bandiere o polistiroli. Ma l’effetto di questi strumenti posso benissimo riprodurlo in fase di color grading, evitando di rallentare il set e di limitare la libertà delle riprese. Poi c’è anche il fatto che secondo me il digitale ha bisogno di luci molto morbide, quindi molto grandi, e che per bandierare una luce molto grande serve una bandiera ancora più grande. Lo spazio sul set è prezioso, non si può pensare di occuparlo tutto con stativi, bandiere e proiettori, bisogna lasciare gli attori liberi di muoversi e le macchine libere di inquadrare.
Anche per questo motivo io tendo a preferire un uso naturalistico della luce. Se in scena c’è una finestra, la luce deve venire dalla finestra; se in scena c’è una lampada accesa, la luce deve venire dalla lampada.
Lavorando secondo questo principio diventa molto importante il rapporto col regista, al quale puoi dare l’opportunità di girare a 360° in cambio della possibilità di decidere insieme, più elasticamente che in passato, il posizionamento degli attori e delle macchine, allo scopo di sfruttare al meglio la luce proveniente da quella finestra o da quella lampada. Allo stesso tempo diventa fondamentale la collaborazione col reparto scenografia per la scelta delle fonti luminose da mettere in scena, dal momento che saranno parte integrante del lavoro di fotografia. Nel passaggio al digitale il rapporto tra direttore della fotografia e scenografo si è decisamente intensificato; ora molto più di un tempo si concordano i colori delle tende, dei muri, delle abat-jour, perché tutte queste scelte partecipano in maniera determinante alla fotografia.
In sostanza con questo modo di lavorare, che possiamo forse definire più naturalistico, meno artificioso, diventa sempre più importante la collaborazione tra i reparti. E questa è una cosa molto bella, molto interessante.
Quanto è importante per te stare in camera?
Io non girerei mai un film senza stare alla camera A. La composizione dell’inquadratura è una questione di fotografia. Fare fotografia senza comporre l’inquadratura è un lavoro insensato. Tendenzialmente sul set io mi occupo delle inquadrature larghe, nelle quali posso vedere l’illuminazione complessiva della scena, e affido agli altri operatori le strette.
Questo implica una notevole fiducia nei tuoi operatori e nel video assist, dal momento che anziché stare davanti ai monitor a osservare le tre inquadrature tu sei occupato a farne una.
Ho dei piccoli monitor sui quali, quando non faccio movimenti difficili, posso buttare un occhio e vedere se le inquadrature degli altri operatori sono quelle che speravo, ma sì, mi affido molto, è inevitabile. Così come i rapporti tra direttore della fotografia e regista devono avvenire su un campo di comunicazione non verbale ma per empatia e per conoscenza e per intuizione reciproca, lo stesso deve accadere tra il direttore della fotografia e gli operatori di macchina; non puoi stare a dirgli inquadra lì, non inquadrare là, stai un po’ più su o stai un po’ più giù; non è possibile, ti devi fidare. Per questo motivo più conosci la tua troupe più le cose sono semplici.
Il set è il posto dove si parla meno in rapporto alla complessità di quello che si sta facendo. E non potrebbe essere altrimenti perché se dovessimo raccontarci tutto faremmo un’inquadratura la settimana.
Riguardo al video assist, è la figura per me più importante di tutto il reparto, anche più degli operatori. Un video assist che fa bene il suo lavoro mi segnala tutte le cose che mi sono sfuggite. Tutti i miei operatori di macchina vengono dal video assist. È il ruolo perfetto per imparare il lavoro del cinema, perché sei vicino all’immagine, al suono, alla regia… è sicuramente il posto migliore dove imparare.
Tornando all’HDR, quanto lo trovi utile e fino a quanti stop ti spingi?
Due stop non servono a niente, sei stop sono quasi sempre eccessivi sia per l’effetto che per il flickering. Quindi in genere fra tre e cinque. L’HDR permette di risolvere in maniera meravigliosa delle situazioni estremamente complesse.
Ricordo per esempio le riprese in pellicola de La stella che non c’è di Gianni Amelio. Eravamo in Cina, in un ufficio di un grattacielo tutto vetri a quaranta metri di altezza. Ovviamente non potevo illuminare lo spazio dall’esterno, ma per i movimenti degli attori avevo anche poche possibilità d’introdurre un’illuminazione interna. Allora ho fatto coprire con dei filtri ND tutte le vetrate, per evitare che il panorama di Shangai risultasse sovraesposto. Così facendo però ho ridotto anche la luce all’interno dell’ufficio e quindi ho dovuto rafforzarla piazzando dei neon sopra le finestre, per dare comunque l’impressione che lo spazio fosse illuminato in maniera naturale. In questo modo però la luce proveniva da un’angolazione più alta di quella naturale e risultava anche molto più dura. Inoltre avvicinandosi alle vetrate gli attori uscivano dalla luce dei neon e prendevano solo quella proveniente dall’esterno. Insomma fu un processo fotografico assurdo che oggi, grazie all’HDR, potrei evitare ottenendo un risultato decisamente migliore.
La questione non è più la latitudine di posa delle macchine digitali, che ormai è molto più ampia di quella della pellicola, ma è il modo in cui questa latitudine viene prodotta da alcuni sensori, ossia creando immagini a basso contrasto. Grazie all’HDR posso ottenere un contrasto simile a quello della pellicola e al contempo sfruttare un’enorme gamma dinamica, mantenendo leggibilità nelle alteluci. E i piccoli problemi di flickering o di motion blur che possono insorgere nelle situazioni più complesse, come in un camera car in cui esponi sia per l’interno che per l’esterno, sono cose che vedono solo gli ossessi, non uno spettatore normale, che quando guarda un film viene avvolto dalla sua atmosfera e non nota minimamente queste sbavature tecniche.
Sulla stessa nota ho visto che non ti fai minimamente problemi ad alzare gli ISO, in particolar modo nelle notturne.
Ultimamente sono arrivato a girare anche a 4000 ISO, oltre le raccomandazioni tecniche specifiche della camera. Però francamente me ne frego. Se sto girando una serie ambientata in Italia durante la seconda guerra mondiale e devo riprendere un attore che cammina di notte con una lanterna in mano in una strada buia, credo che quella lanterna debba essere riconosciuta come fonte di luce realistica e reale. E quindi mi affido al fatto che nelle immagini si vedrà solo una lanterna e poco più. Questa è una cosa un po’ rischiosa, potrà esserci un po’ di grana, ma non mi interessa. Preferisco come spettatore credere all’immagine che vedo, accettare il fatto che ci sia un po’ di grana e che i volti siano scuri, piuttosto che avere di fronte un’immagine tecnicamente perfetta alla quale non riesco a credere. E comunque col digitale le possibilità di post produzione sono infinite, ci sono i de-grain, i de-flicker, si riesce a tirar fuori luminosità e contrasti dove non c’è quasi niente. Ovviamente è necessario un certo lavoro in fase di color grading, ma preferisco quello a un’immagine artificiosa e non realistica.
Per quanto riguarda la diffusione invece preferisci utilizzare dei filtri ottici piuttosto che simularne l’effetto in post produzione.
L’effetto dei filtri di diffusione ricreato in color non mi piace quanto quello realizzato sul set, che ha anche il vantaggio di poter essere condiviso col regista, al quale già non mostro il risultato dell’HDR, quindi almeno quello… Il problema è che a volte utilizzando questi filtri si creano aloni eccessivi attorno alle fonti luminose e riflessi parassiti troppo evidenti; in quei casi evito di utilizzare filtri e mi affido alla post produzione. Ma è una cosa rara.
Quanto sono importanti per te la pianificazione delle riprese e la scelta delle attrezzature?
Non m’interessano le ottiche che uso, basta che funzionino. Non m’interessano le camere che uso, potrei girare con un telefonino. Non ho letto un solo libro di tecnica fotografica negli ultimi quarant’anni. Non m’interessa niente di tutto ciò, ma soprattutto non mi interessa minimamente e neanche mi tranquillizza essere preparato, avere uno storyboard o un’idea precisa di quelle che saranno le luci che farò il giorno dopo; anzi, questa è una cosa che mi da estremamente sui nervi, perché mi sembra un atto solipsistico di egocentrismo, perché non è detto che ciò che io ho pensato in maniera isolata, privatamente, sia quello che corrisponde alle esigenze del regista, che cambiano giorno per giorno, influenzate da quello che è successo il giorno prima, da quello che succederà il giorno dopo, dagli umori degli attori, dalla meteorologia, da tutta una serie di fattori che fanno sì che una preparazione ossessiva e meticolosa, fatta a tavolino, sia un freno spaventoso all’improvvisazione e all’interpretazione della realtà concreta. Quindi piuttosto che inchiodarmi a un piano io preferisco arrivare sul set impreparato e capire sul momento quello che va fatto.
Quando scegli di lavorare con ottiche zoom?
Più vado avanti, più tendo a scegliere obiettivi zoom. Perché sono molto più veloci da utilizzare, permettono di fare delle scelte di focale in un attimo ed evitano i continui cambi ottica. La qualità degli zoom oggi è eccellente, non sono più quelli degli anni ’70, quindi perché no?
Il problema di fondo è che bisogna essere veloci. Noi non possiamo arrogarci il diritto, come direttori della fotografia, di far perdere tempo ai registi e agli attori. I registi hanno un carico di responsabilità enorme, devono pensare a mille cose, ci manca solo che noi ci mettiamo a creare problemi.
Qual è il tuo processo quando leggi una nuova sceneggiatura?
Quando leggo una sceneggiatura io cerco di capire quello che il regista vuole dal punto di vista formale, ma per capirlo non ricorro a riferimenti tecnici, non ricorro a un’attenzione esclusivamente filmica, ricorro a un’attenzione culturale, politica, linguistica, estetica, a un tipo di attenzione che coinvolge tutti gli aspetti della nostra vita. La conoscenza dei luoghi e delle lingue, per esempio, è fondamentale per il nostro lavoro. Viaggiare è una cosa che serve moltissimo per capire come fare la fotografia di un film, perché ti mette a contatto con esperienze nuove e sorprendenti. Seguire l’arte contemporanea, conoscere quella del passato, leggere libri, occuparsi di politica, della società, sono tutti fattori fondamentali per capire cosa ti stia chiedendo un regista e per imparare a fare questo lavoro; che non è un lavoro né tecnico né artistico, ma un lavoro di ricezione di stimoli che tu, come direttore della fotografia, devi in qualche modo reinterpretare e riproporre al regista sulla base di quelle che sono le sue necessità, che sono a volte dichiarate e a volte non dichiarate.
Quindi la sceneggiatura è sì uno strumento utile per sapere come deve andare un film, ma è un qualcosa che il direttore della fotografia deve capire e interpretare insieme al regista in base al proprio grado di curiosità e cultura.
La filmografia di Luca Bigazzi: IMDB